Siamo agli albori della civiltà, gli esseri umani sono scimmioni che ancora non hanno levato gli occhi al cielo. La ricerca del cibo è una delle principali occupazioni e ragioni d’esistenza, tant’è che tutti i sensi si sono specializzati allo scopo. Ma è senz’altro l’olfatto a prevalere, e i bestioni se ne servono anche per trovare partner, orientarsi, comunicare, captare i pericoli, marcare il territorio.
Finché un giorno, ecco compiersi il grande balzo evolutivo e dal camminare a quattro zampe con il muso appiccicato al suolo, i nostri antenati iniziano a levarsi sugli arti inferiori, liberano le mani, portano il viso fuori dalla nebula di polvere e molecole odorose in cui vivono immersi. La nuova posizione consente loro di proiettare avanti lo sguardo, e poco a poco il grugno si riduce, il naso si rimpicciolisce, gli occhi possono avvicinarsi permettendo una visione stereoscopica. La vista diventa il senso dominante.
È convinzione diffusa che nel corso dell’evoluzione abbiamo perso gran parte delle nostre facoltà olfattive e, chissà perché, ogni volta che leggo o sento ripetere questa storia, mi si staglia davanti una scena simile a quella che ho descritto sopra: scimmioni allo stato brado che poco a poco si ergono in piedi abbandonando la pelliccia e, con essa, il senso animale per eccellenza.
L’idea della “perdita dell’olfatto” nel corso dell’evoluzione umana, ci porta a pensare che la vista sia il senso più consono all’uomo civilizzato e quindi l’olfatto stia, evolutivamente parlando, qualche gradino più in basso.
Bisogna allora sapere che questa nozione non è una verità scientifica ma soltanto un’ipotesi.
Tra i fautori, gli anatomisti britannici G. Elliott Smith e F. Wood Jones che ritenevano la perdita dell’olfatto una tappa dell’adattamento degli ominidi alla vita sugli alberi dove la vista sarebbe stata il senso più funzionale alla ricerca del cibo e alla difesa. Questa tesi fu poi superata, ma non l’idea che la nostra capacità di sentire gli odori sia andata via via degradandosi. D’altra parte noi umani siamo stati classificati come mammiferi “microsmatici“, ovvero dotati di un olfatto inferiore rispetto a quello di altri animali. Questo termine, ancora piuttosto utilizzato, fu coniato alla fine dell’Ottocento dal chirurgo e antropologo francese Pierre Paul Broca sulla base delle dimensioni del nostro sistema olfattivo e considerando l’impiego, a suo giudizio assai modesto, che quest’organo di senso trova nella nostra vita quotidiana.
In epoca più recente, Leslie Aiello e Christopher Dean, nel testo An Introduction to Human Evolutionary Anatomy (1990), ipotizzarono che la posizione eretta abbia determinato una perdita del primato dell’olfatto nella rilevazione delle informazioni sull’ambiente. Una volta assunta la posizione sugli arti inferiori, le nostre narici si sono allontanate dal terreno dove innumerevoli tracce odorose sollecitavano costantemente questa sfera sensoriale. E, come insegna Darwin, il mancato utilizzo dell’organo determina la sua regressione.
Un riscontro sembrò arrivare dalle ricerche di Linda Bucks, premio Nobel della medicina, che ebbe il grande merito di mappare i geni olfattivi. Negli umani i geni dell’olfatto sono 1.000, un numero simile a quello di altri mammiferi come i cani, peccato che nel nostro caso molti di essi siano privi dei corrispondenti recettori olfattivi. Questa grande famiglia può contare “solo” su circa 350 geni funzionanti, mentre la ragion d’essere del cosiddetto “DNA spazzatura” – circa il 72% del genoma umano – è ancora per gran parte avvolta dal mistero.
Ma la causa della mancata espressione di molti geni olfattivi risiede davvero in minore utilizzo di questa modalità sensoriale da parte dei nostri antenati? E davvero ha determinato un peggioramento delle nostre abilità sensoriali?
Negli ultimi anni le ricerche sull’olfatto si sono susseguite numerose permettendo di incrociare studi provenienti da diversi campi, dalla genetica alle scienze cognitive e comportamentali. Possiamo perciò aggiornare la nostra narrazione rivedendo l’idea, implicita nella tesi del decadimento olfattivo, secondo cui l’olfatto umano avrebbe avuto il suo massimo sviluppo nell’era degli ominidi “macrosmatici” che grufolavano con il muso al suolo.
Oggi sappiamo che l’olfatto umano ha avuto una funzione estremamente importante nell’evoluzione umana giocando un ruolo decisivo nella vita sociale e nello sviluppo comportamentale. Difficile quindi credere che una diminuzione quantitativa dei ricettori olfattivi sia dovuta a un progressivo abbandono dell’odorato da parte della scimmia nuda.
Come rileva lo studioso italiano Giorgio Manzi, il bulbo olfattivo dell’Homo Sapiens è del 12% più sviluppato rispetto a quello del Neanderthal, a riprova di come questo senso abbia avuto un ruolo sempre più rilevante. Pensiamo, per esempio, alla cottura del cibo che, introdotta circa 2 milioni di anni fa, ci ha permesso di apprezzare una gamma di aromi estremamente più ricca, portandoci a sviluppare una vera e propria arte culinaria.
Un recente studio comportamentale ha dimostrato che i 350 geni attivi nell’uomo non saranno moltissimi, ma sono più che sufficienti per avere un olfatto eccellente ed equiparabile a quello prodigioso dei topi. Un altro studio ha rilevato che in alcuni casi l’olfatto umano ha prestazioni superiori a quello di altri mammiferi come i cani e le scimmie, e per certe tipologie di odori ce la caviamo meglio anche dei topi.
Infine sappiamo che l’olfatto umano supera di gran lunga le prestazioni delle più fini strumentazioni elettroniche di analisi degli odori, come i nasi artificiali.
Il Prof. Gordon M. Shepherd della Yale School of Medicine (alle cui ricerche questo mio post attinge), ha suggerito una nuova ipotesi che, se verificata per via sperimentale, spiegherebbe la ragione per cui il naso e l’organo olfattivo si sarebbero ridotti in dimensioni e complessità nel corso dell’evoluzione, senza che la nostra abilità nel riconoscere e discriminare gli odori ne fosse compromessa.
La cavità nasale è dotata di un sistema di filtraggio che svolge tre importanti funzioni:
- riscaldamento
- pulizia
- raffreddamento
La funzione di filtraggio permette di ripulire costantemente l’organo olfattivo, ma al tempo stesso fa anche piazza pulita delle molecole odorose incamerate. Più il filtraggio è attivo, per esempio in animali che assimilano molto sporco nell’atto di annusare e respirare, e più è necessario integrare le funzioni sensoriali aumentando il numero di ricettori per aver maggior possibilità di intercettare le poche molecole odorose che rimangono dopo le grandi pulizie.
L’ipotesi è dunque che gli umani a un certo punto della loro evoluzione, staccando il naso dal suolo, non abbiano più avuto bisogno di ripulire così spesso la cavità nasale. Pertanto molti ricettori olfattivi avrebbero perso la loro ragion d’essere e sarebbero rimasti funzionanti solo quelli utili per rilevare le molecole odorose che hanno continuato ad arrivare all’epitelio olfattivo nella stessa quantità di prima, ma in condizioni di maggior nitidezza dell’organo.
L’olfatto umano ha straordinarie capacità di discriminazione e questo esercizio di analisi e decodifica degli odori si associa a pratiche sofisticate che non trovano riscontro negli animali definiti “macrosmatici” come i topi e i cani: la creazione di odori e di composizioni olfattive per realizzare prodotti come profumi, bevande, vini, distillati e, naturalmente, pietanze di ogni genere.
Il film Ratatouille è emblematico in questo senso perché, pur nel contesto della fiction, ci mostra un topino, sicuramente molto dotato dal punto di vista olfattivo, la cui grande ambizione è raggiungere vette che solo gli umani sono in grado di toccare diventando uno chef, cioè imparando a usare creativamente questa sfera sensoriale.
Di questa avventura tutta culturale relativa alla percezione olfattiva ha dato conto Alain Corbin nella sua impareggiabile Storia sociale degli odori, un’opera che oggi meriterebbe di essere aggiornata alla luce dell’odierna consapevolezza delle caratteristiche di questa sfera sensoriale e della sua capacità di condurci in una peculiare dimensione estetica da cui tutti siamo sempre più affascinati.
Per approfondire invece il mito del senso perduto, la genesi di questa idea e le odierne prospettive scientifiche, leggete il bellissimo articolo di John P. McGann “Poor human olfaction is a 19th-century myth” (Science 12 May 2017: Vol. 356, Issue 6338).
© Francesca Faruolo
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